Ancora le razze umane – tra politica e antropologia biologica

A cadenza periodica i media italiani danno spazio a infelici uscite di tale politico che si esprimono su temi riguardanti la razza, scatenando oltraggio e indignazione nelle frange liberali e arrampicamenti storici/etimologici o banalità da bar dalla parte offesa per giustificare le proprie parole. Quando si cerca di contestualizzare l’uso del termine razza si cita sempre più o meno volontariamente (e più o meno appropriatamente) l’antropologia, rea di aver legittimato il concetto in epoche storiche passate, e che tutt’oggi ricorre allo stesso termine (ad esempio negli USA, dove si usa comunemente la parola “race”) o a sinonimi per esprimere diversità categoriche nell’aspetto fisico degli individui (penso in particolare all’ambito forense o medico).

È corretto continuare a utilizzare il termine razza? Cosa ne pensa l’antropologia, e in particolare la genetica? Perché le osservazioni degli scienziati sembrano contraddire il senso comune? Qual è il limite tra il politicamente corretto e un affermazione oggettivamente errata?

Quando frequentai il corso di antropologia fisica all’università, una delle prime lezioni fu dedicata a un’introduzione storica dai primi sviluppi ottocenteschi, Cesare Lombroso, fino al manifesto fascista della razza del 1938. L’intenzione era di trattare con rigore e (impossibile) distacco un capitolo fondamentale a indurre la riflessione “ecco come, quando e perché abbiamo sbagliato”. Per una disciplina scientifica che ha al centro l’uomo, è necessario capire che gli aspetti sociali e politici sono sempre, sempre, sempre parte della narrazione, sempre in gioco, dalle premesse ai risultati e alle loro implicazioni.

A partire dal settecento e fino all’ottocento scienziati e esploratori passavano le giornate a catalogare il catalogabile e a completare l’atlante universale dello scibile. Diverse le descrizioni di razze umane proposte, per caratterizzazione e numero: impossibile trovare una versione accettata all’unanimità dalla comunità scientifica di allora. Questo già avrebbe dovuto mettere in guardia sull’irrealizzabilità dell’impresa. Imprese impossibili a volte vengono giustificate dall’importanza dei risultati, e ben presto ci siamo resi conto che non vi era e non vi è la minima importanza, nessun fondamentale progresso nel catalogare gli esseri umani in base a caratteristiche fisiche distribuite in maniera complessa sulla popolazione globale. Con qualche eccezione: in medicina o nelle scienze forensi l’uso di descrizioni generiche e necessariamente approssimative, che corrispondono in larga misura a gruppi di diversa provenienza etno-geografica, può essere d’aiuto a sviluppare cure mediche più efficaci, o a restringere il gruppo di sospetti per una indagine o per l’identificazione di un resto umano. Questi sono casi molto particolari e controversi, che spesso purtroppo si accompagnano a incomprensioni del linguaggio tecnico usato dagli specialisti, abuso del concetto di frequenza, rischio e probabilità, e fondamentali questioni sulla sensibilità sociale che a volte manca agli specialisti stessi. Insomma, ambiti difficili e caldamente dibattuti, ardui da codificare per il largo pubblico, e certamente perfettibili.

J.F. Blumenbach, De generis humani varietate – 1776

L’altro uso che si può fare di un sistema di catalogazione della specie umana è un uso sociale e politico, qualora si voglia legittimare la definizione di un gruppo a scapito di un altro, definire un “noi” contro un “gli altri”, ed eventualmente giustificare il privilegio di uno sull’altro, o che un gruppo sia migliore di un altro. Il concetto di identità e di “altro” è un pilastro della nostra psicologia e della società e questo porterà sempre a tensioni e incomprensioni. Queste leve psicologiche potenti vengono spesso tirate dagli schieramenti politici. L’errore sta nell’accompagnare questo concetto al concetto di razza, e ad allacciarlo a circostanze biologiche, facendo un salto logico non giustificato e non razionale.

Scienziati e divulgatori di chiara fama negli ultimi decenni hanno speso tempo e parole per screditare le basi biologiche dietro al concetto di razza – non mi dilungherò su questo tema grandemente assodato (suggerisco letture in calce). Dal punto di vista della genetica, i pilastri fondamentali e innegabili partono dai lavori di Richard Lewontin negli anni 70, che riportò come la differenza genetica misurata tra due persone dello stesso gruppo sia più alta di quella misurata tra gruppi o popolazioni diverse (1,2). Altri punti fondamentali e innegabili sono 1) la diversità genetica si distribuisce sul pianeta in gradienti, sfumature, e non “a blocchi”, come razze distinte (3-5); 2) non esistono popolazioni “geneticamente pure”, ma siamo tutti il risultato di incroci, avvenuti più o meno lontano nel tempo (6, 7). Molti genetisti chiedono apertamente di smettere di usare la parola razza negli studi scientifici, e parlare piuttosto di “ancestralità” quando ci riferiamo a come la variabilità genetica si distribuisca in vari gruppi etno-geografici (8).

Qui però voglio sbilanciarmi con un concetto che è anche un po’ una provocazione: la biologia dunque esplicitamente nega l’esistenza delle razze? Io credo di no. La biologia certamente non porta nessuna prova all’esistenza delle razze, ma neanche porta le prove che le confutino. Perché la razza è un concetto sociale e politico, non biologico: non abbiamo nemmeno una definizione univoca di cosa queste razze siano, e bisogna tenere bene in mente questo salto logico. Lo scienziato potrà portare numeri e dati a sfinimento, ma se una persona vuole riconoscere l’esistenza di razze attorno a sé lo farà comunque, troverà il modo, un angolo di lettura dei dati, un punto di vista differente. Tutti gli scienziati sono d’accordo che le razze non esistono? Falso. Alcuni colleghi si appellano al principio di neutralità a cui accennavo sopra, “convenientemente” mettendo da parte il bagaglio sociopolitico del termine, mentre altri sono perfettamente a proprio agio a parlare di razze.

Tempo fa alcuni antropologi italiani hanno fatto circolare un testo, ora pubblico, per proporre l’eliminazione del termine “razza” dalla Costituzione Italiana (link). Un’iniziativa molto importante simbolicamente, non so se praticabile tecnicamente, ma al quale comunque si sarebbe dovuto dare più risalto. Non tutti i colleghi hanno espresso solidarietà unanime: ad esempio, una voce fuori dal coro si appellava al fatto che effettivamente le razze in un certo modo esistono, portando le solite argomentazioni desuete, temi in voga all’inizio del XX secolo, e lamentando questa moda del politically correct e del negare l’evidenza. Casualmente, è emerso come questa persona sia vicina ad uno schieramento politico con una univoca opinione riguardo alla diversità umana, declinata nella forma meno aggressiva con la buona volontà del “aiutiamoli a casa loro”, e del “valorizzare e proteggere” queste diversità. Quindi sì, anche gli scienziati (una minoranza) hanno opinioni contrastanti al riguardo. Francis Galton, coetaneo di Darwin e scienziato brillante, non nascondeva opinioni apertamente razziste. Lo stesso James Watson, che ha vinto il premio Nobel per la scoperta del DNA, anni fa ha dichiarato che “black people are less intelligent than white people”. Recentemente, il prof. Boncinelli ha pubblicato un triste tweet che ha lo stesso sapore di sfida al politicamente corretto – just for the sake of it – non riesco a interpretarlo in altro modo.

Sorprendentemente, alcuni scienziati sono a proprio agio nel parlare di razze umane. Un fenomeno che va contestualizzato.

Alcune persone che vedono “le razze” spesso sono vittime di un’ottica di pensiero antica, superata, sia dai risultati della biologia e della genetica ma soprattutto, ricordiamocelo, dalla società del terzo millennio. Siamo implicitamente condizionati dalla nostra percezione, da bias cognitivi che ci fanno notare le differenze del colore della pelle; al contrario, bambini cresciuti nella multietnica New York non si rendono conto che alcune persone sono bianche ed altre nere. Nessuno si metterebbe a suddividere gruppi di persone in base al colore degli occhi e a trattarli in maniera distinta. Allora che senso ha catalogare la specie umana in categorie distinte principalmente – ricordiamo – sulla base del colore della pelle, o convenientemente sulla base di parziali dati genetici spesso presi fuori contesto o tagliati ad hoc? Davvero vogliamo fare classifiche in base alle razze, e forzare i dati per dimostrare che alcuni gruppi sono meglio di altri? A cosa serve? E, molto importante, a chi serve?

Questa riflessione è centrale per la mia ricerca perché sottolinea la responsabilità dello scienziato in come egli sceglie di descrivere i dati – dati numerici, inconfutabili, quantificabili, ma con un pesante bagaglio di implicazione sociale. White supremacists negli stati uniti spesso vanno a braccetto con scienziati che condividono le loro idee o il loro piano politico, che leggeranno dati e numeri secondo propria convenienza. Spesso ciò avviene anche inconsciamente – gli scienziati sono persone, appartengono a colori politici, e alcuni forse sono semplicemente razzisti? Nell’antropologia più che in altre discipline scientifiche questo background ha un peso importante.

Per rispondere ad alcune delle domande che avevo posto sopra: no le razze non esistono, non esistono in genetica e non esistono neanche nel buon senso. La parola razza appartiene a un capitolo storico di sofferenze dal quale vogliamo prendere le distanze, e al giorno d’oggi si usa per i cani o altri animali, non per gli uomini. Nessuno ha mai proposto una definizione convincente di razza, e di quali criteri utilizzare per distinguerne una dall’altra. Vogliamo negare che a colpo d’occhio una persona nata da genitori italiani e cresciuta in Italia sia diversa da una persona nata da genitori sudafricani e cresciuta in Sudafrica? Certo che no, allo stesso modo un tirolese a colpo d’occhio è diverso da un siciliano ed io sono diversa da mia cugina. Il quadro ha più a che fare con il concetto di identità che con quello di una quantificabile differenza biologica.

Concludo linkando questo video simpatico, ma anche molto intelligente, dove Ivano Marescotti fa un esercizio simile, nel definire quello che per scherzo potrei pensare come la mia “razza”: la razza Romagnola.

Referenze bibliografiche:

[1] R. C. Lewontin, “The Apportionment of Human Diversity,” in Evolutionary Biology, pp. 381–398. 1972.
[2] G. Barbujani, a Magagni, E. Minch, and L. L. Cavalli-Sforza, “An apportionment of human DNA diversity.,” Proc. Natl. Acad. Sci. U. S. A., vol. 94, no. 9, pp. 4516–9, 1997.
[3] T. J. Pemberton, M. DeGiorgio, and N. A. Rosenberg, “Population structure in a comprehensive genomic data set on human microsatellite variation.,” G3 (Bethesda)., vol. 3, no. 5, pp. 891–907, May 2013.
[4] L. B. Jorde and S. P. Wooding, “Genetic variation, classification and ‘race,’” Nat. Genet., vol. 36, no. 11s, pp. S28–S33, Nov. 2004.
[5] N. A. Rosenberg et al., “Genetic structure of human populations.,” Science, vol. 298, no. 5602, pp. 2381–5, 2002.
[6] N. Patterson et al., “Ancient admixture in human history,” Genetics, vol. 192, no. 3, pp. 1065–1093, 2012.
[7] G. Hellenthal et al., “A genetic atlas of human admixture history.,” Science, vol. 343, no. 6172, pp. 747–51, Feb. 2014.
[8] M. Yudell, D. Roberts, R. DeSalle, and S. Tishkoff, “Science and society: Taking race out of human genetics,” Science, vol. 351, no. 6273. 2016.

Letture consigliate:

Guido Barbujani, Pietro Cheli
Sono razzista, ma sto cercando di smettere (link)

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